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It's hard to dance with a Devil on your back, so...

Immagine di Kyendo

Di un banale dilemma

Ora come ora, ritengo esagerato affermare di agire in base ad una "filosofia di vita" (sebbene può darsi che lo faccia, pur non avendola ancora individuata).
Tuttavia, sempre più spesso, discutendo con amici, conoscenti e, perché no, estranei, ribadisco la mia posizione: ci rendiamo conto della realtà solo nel momento in cui la percepiamo, e comunque nel modo in cui la rielaboriamo in maniera del tutto personale. Certo, spesso capita di trovare persone che condividano alcune delle nostre percezioni, almeno fino ad un  certo livello (credo che in fondo tale percezione non sia mai la stessa per due persone, ed addirittura in noi stessi essa cambi a seconda delle esperienze vissute e degli stati emotivi), ma questo non basta a convincermi che la realtà "oggettiva", ed intendo quella che dovrebbe pur esistere dal momento in cui noi la percepiamo e rielaboriamo, sia più importante di quella che creiamo in noi e per noi.

Ma... c'è un ma!
In questo quadro, non capisco in che maniera vadano interpretate le relazioni umane, che pure fin dai tempi degli antichi greci (e probabilmente anche prima) vengono elette ad esperienza imprescindibile dell'esistenza umana, diventandone addirittura, in alcuni casi, il fine ultimo.
Il mio dubbio, che probabilmente permetterebbe di comprendere meglio tutto questo mio sproloquio che a tratti potrebbe sembrare insensato (persino a me stesso) è difficile da esprimere in forma di domanda esplicita. In pratica, la mia visione soggettiva della realtà mi porta al contrasto tra la figura dell'altro come parte della mia esperienza e quella dell'altro come creatore di una realtà alternativa alla mia, seppur coesistente, di cui io non sono altro che un attore. Probabilmente non mi sono spiegato ancora bene.
Diciamo che mi sembra di essere l'autore di un libro che parla di un autore che scrive di me (ho davvero bisogno di leggere di più, se questo è il miglior modo in cui riesco ad esprimermi!).
Luca al telefono; continuerò (forse) in un altro momento.
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Della pateticità e del patetismo.


pateticità

[pa-te-ti-ci-tà] s.f. inv.
  • • Tono patetico e commovente, soprattutto in un'opera letteraria:situazione ricca di p.



    patetismo

    [pa-te-tì-smo] s.m.
    • • Carattere sentimentale e patetico; anche, sentimentalismo affettato


    A volte mi sembra impossibile che qualcuno possa leggere qualcosa di mio pugno: sono tremendamente insopportabile (persino in questo momento!).
    Quando mi rileggo avrei voglia di prendermi a pugni.



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Di ciò che ti piacerebbe essere.

Se potessi (ed in realtà potrei, dunque sarebbe meglio dire "Se volessi"... ma visto che se volessi essere qualcosa mi applicherei per diventarlo, ed è abbastanza evidente che così non è... continuo ad esprimermi col "potere") sarei un barbone. O un attore. O entrambi, contemporaneamente, o prima l'uno e poi l'altro, o viceversa.

Forse il modo più corretto per formulare la cosa è: se ti venisse offerta la possibilità di essere qualcun altro senza, cambiando radicalmente (o meno) la tua vita, in maniera tale che tu non debba effettivamente sentire di aver dovuto rinunciare a qualcosa per diventarne altro... cosa chiederesti di essere?

...
D' accordo. Facciamo così. Scordiamoci la prima risposta, e le spiegazioni che ancora mi frullano in testa, ma che a questo punto sono completamente inutili.

Se dovessi essere altro, mi piacerebbe essere qualcosa che non s' impelaghi inutilmente su una domanda idiota.

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Di una storia.

- Di cosa ti piacerebbe scrivere?
-...

- C' è un ragazzo.
- Ce ne sono tanti; altri ce ne sono stati e ce ne saranno. Cosa ha di speciale questo ragazzo?
- Lui... lui cerca la sua strada, la sua vocazione.
- Un po' come tutti. - Mi fa osservare.
- O quasi! - La correggo.
Non ride. Nemmeno un accenno di sorriso. Mi scuso.
- Fa niente. Sai che stai usando la punteggiatura sbagliata?
- Chi lo ha deciso?
- Non saprei. Ma è così.
- Alcuni hanno abolito la punteggiatura, prima di me.
- Si, ma lo hanno fatto con uno scopo, per rafforzare il messaggio dietro le loro parole. Ma tu dubiti persino di avere un messaggio da trasmettere.
- Ci penseremo poi. - Concludo.
- Come preferisci; ritorniamo al tuo ragazzo: hai detto che cerca la sua strada. Come?
- Aspettando che la corrente cambi direzione, aspettando quella che lo porti alla meta.
- Ovvero?
- La felicità.
- Sembra abbastanza banale - Storce la bocca.
- Lo so.
- E ... aspetta, e basta? Non cerca la corrente giusta per lui?
- Non saprebbe dove guardare. Sulla riva ha conosciuto diversi altri ragazzi, ed alla fine tutti si sono tuffati. Altri hanno preso il loro posto, ma dopo un paio di ricambi si è stancato di accendere sentimenti destinati a spegnersi, perché ogni volta che deve salutare qualcuno, si spegne un po' anche lui: ma sa che non può permettersi una cosa del genere, perché anche una volta trovata la corrente giusta, si aspetta un viaggio poco riposante, e deve riuscire a conservare le sue energie.
- Dimmi di più.
- Non si è reso conto che in realtà è già trascinato dalla corrente, da un'altra, non la sua. Ogni tanto lo intuisce, ma il fiume scorre così lentamente che quando succede osserva le acque, e le vede immobili. E allora ricomincia tranquillamente ad osservare.
- Mi sembra che in realtà sia assolutamente consapevole di non essere davvero fermo.
- ...

- Forse... anzi, hai quasi certamente ragione. Allora diciamo che non vuole ammetterlo con sé stesso.
- Perché? Quale problema ci potrebbe mai essere nell' ammettere che la sua situazione è diversa?
- Non saprei... Qualcosa che ha a che fare con l' orgoglio, forse. Ecco, non potrebbe più vantarsi della propria ostinazione, o qualcosa del genere, insomma.
- Scusami, ma onestamente mi sembra abbastanza stupido. Se non sa da dove parte, progetterà per sempre un viaggio impossibile.
- Magari in realtà non gli interessa nemmeno raggiungere la meta: può darsi che preferisca programmare il viaggio. Immaginarlo.
- Piuttosto che viverlo... Come se qualcuno intendesse diventare chef senza il senso del gusto, o pittore senza la vista, o musicista senza udito, e si dedicasse a studiare la propria arte pur sapendo che in realtà non avrà mai l' occasione di abbracciarla per intero. Secondo me dovrebbe ammettere che la meta ed il viaggio che sta scegliendo per sé non sono quelli adatti.
Non ho ben afferrato la similitudine, ma le è uscita dalle labbra in un soffio così convincente e spontaneo, che mi sorprendo ad annuire.
- Torniamo all' inizio, dunque. Se non sa quale sia il viaggio, ma attende... come definirla... una sorta di ispirazione, come puoi dire che il viaggio che ha scelto per sé non è quello giusto? Come puoi dire che la sua meta non sia quella giusta?
- Lo hai detto tu, prima di me. Ho soltanto tradotto in una maniera più esplicita.
Potrebbe aver ragione, e la cosa mi terrorizza. Non so cosa dico, ma lo dico; millenni di evoluzione del cervello che se ne scendono allegramente per lo sciacquone di sua divinità, il Caos.

- Se aprisse una sorta di agenzia di viaggio? Consigli per gli impavidi. Stando sulla riva ha ormai imparato a capire gli altri ragazzi, o almeno così gli pare. Sa individuare la corrente per gli altri, ma non la sua. Magari la sua è una pozzanghera, e lui ci sguazza dentro già da un po', senza che sia stato mai in grado di accorgersene.
- E dove lo ptrebbe mai condurre un pozzanghera? Quale straordinario viaggio impervio potrà mai affrontare, fermo sempre nello stesso posto?


Mi sono interrotto. Ho perso il filo, ancora una volta.
M. se n' è accorta.
- Riflettici un po' su; quando avrai una risposta decente, sai dove trovarmi.
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Di qualcosa, decidi pure quello che preferisci!

Tutto è iniziato mentre leggevo in poltrona: la pelle del rivestimento mi scaldava la schiena (compreso il fondo), ed il mio cane, generosamente, mi scaldava il pancino (che di ino ha ben poco), riuscendo tuttavia ad occupare metà della seduta; contemporaneamente, Grossman mi scaldava l' anima. Troppo calore per un' afosa serata estiva.

Ad un certo punto, ho guardato Tara negli occhi; sono ormai un bel po' di anni (inutile buttare cifre a caso, non ricordo il numero esatto - Iole riderebbe pronunciando con voce acuta "Alzhaimer") che siamo assieme, e le ho chiesto se se ne rendesse conto. Ovviamente non ha risposto niente - non a parole, comunque.

Ma i suoi occhi. Così dannatamente grandi. Quando li fisso con attenzione mi sembra di annegare nelle pupille grosse quanto biglie, nere come la notte in Sardegna. Mi sono reso conto che, prima o poi, abbandonerà il mio presente e continuerà a pretendere carezze dove io non potrò più lamentarmi della sua affettuosa insistenza; il tempo perso senza lei, anche ora, mentre l' ho allontanata per poter annotare qualche pensiero vagante, mi sembra un crimine insensato.
Però... potrebbe essere anche il contrario.
Chi può dirlo?
Il fatto che i cani vivano meno degli uomini non significa necessariamente che non potrei essere io ad andarmene (dove?) per primo; sorrido mentre penso che manterrebbe alto il nome di Hachiko, eppure mi auguro che mi dimentichi in fretta, che torni a correre avanti ed indietro sul balcone per abbaiare alla sua simile invisibile, che vive oltre la torre in cui è stata rinchiusa.

Il destino dell' uomo, fin dalla nascita, è quello di intrecciare relazioni. Fin dal momento in cui gettiamo il nostro primo sguardo sul mondo, abbiamo già in noi il rapporto con l' incubatrice vivente che ci ha scarrozzati in giro per tre quarti di anno; persino i più sfortunati, non possono fare a meno di ripensare al legame materno, una volta che la coscienza inizi a far capolino nel cranio.
E comunque, nessuno può evitare di incontrare qualcuno: al più, può decidere di tenere a distanza chiunque.

Sto divagando, ma come al solito va bene così; alla fine scelgo sempre la via meno agile per la meta, ed a costo di interrompermi bruscamente e di dover ritornare sui miei passi, non voglio perdermi la spontaneità di una passeggiata solitaria.
Almeno qui non dovrei incontrare nessuno... (M. ride, da qualche parte, nascosta dietro un albero dalla corteccia particolarmente rugosa)
La ignoro, oggi non mi va di parlarmi.

Dicevo: tutto bello, tutto carino, fino a che uno dei due elementi in relazione sconvolge le carte in tavola.

Non posso credere che ci si abitui agli addii; credo che sa le persone riuscissero a scrutare la definitività di questo vocabolo, non lo sentiremmo (o leggeremmo) così spesso. Ogni addio è la separazione permanente di due entità; è la cessazione totale di una delle due; parziale per l'altra (e dunque totale anche per essa, in qualche modo). 

Insomma, scrivo frasi, ed a volte le cancello per evitare di giungere alla domanda che mi assilla, e quindi la riporto, a bruciapelo:

"Vale la pena di amare, sapendo che prima o poi finirà? Che qualcuno soffrirà così tanto poter considerare l' idea della morte, piuttosto che sopportare il dolore?"

Che nessuno sarà talmente contento da non pensare a vivere, pur di non godere del piacere?
Ho provato ad invertire il senso della seconda domanda, a pezzi, probabilmente compiendo qualche errore in più di quelli fatti intenzionalmente - ma ancora una volta, non ha alcuna importanza.

...

Gente in casa. Corro il rischio che qualcuno legga. Non mi va. E comunque, ho perso il filo.
Lo ritroverò. O magari no. Poco importa. Teodora (cosa le sarà successo? ho la sensazione che venga investita, nonostante Grossman non lo dica esplicitamente) direbbe che non esistono cose senza importanza. Magari potrebbe avere ragione.

Valuterò.


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Dei pensieri che mi vengono leggendo Bukowski, ma non necessariamente a lui leggati

Diciamolo francamente: inseguo una laurea che non mi interessa quanto dovrebbe per cercare di adattarmi ad una società che non mi rispecchia. Avrei bisogno della macchina strizza-fegato per riuscire ad adattarmi al mondo, e forse mi sottometterei spontaneamente al trattamento dopo un mesetto di bagordi.
Suonerà triste, ma non nutro grandi speranze sul futuro. O cambia il mondo, o cambio io; ed il mondo si basa su troppi millenni di stupidità in più di quanti io ne possa mai collezionare.
Sarò ripetitivo, ma forse la vita era più reale quando si combatteva per sopravvivere; i nostri avi hanno impiegato secoli e secoli ad accumulare saggezza e regole per garantirci la felicità ma, come accade quando i genitori si dimostrano troppo amorevoli, ci ritroviamo sotto una campana di vetro, soffocati dalla bambagia e quasi completamente incapaci di evadere dalla nostra prigione. Ma questo è "normale", l'idea l'ho deglutita da tempo, e la digestione è a buon punto.
Ciò che mi terrorizza è che aspetto di diventare un ingranaggio, per sentirmi parte del meccanismo: so che una vite dimenticata in un angolo perché superflua o difettosa ha poche chance di trovare un genio in grado di apprezzarla. Tutte le viti ancora inutilizzate, e le rondelle ammucchiate nello scatolo si lucidano a dovere per cercare di attirare l'attenzione dell'incapace artigiano di turno. Le più ambiziose cercano di diventare artigiani di sé stesse e per un po' riescono a dare alla loro esistenza un significato; ma alla fine scoprono di essere sempre stati nella catena di montaggio di Sua Eccellenza, la Stupidità Umana.

Nasci, cresci, studi, lavori, crei una famiglia, muori. Per secoli abbiamo avuto la faccia tosta di procreare la nostra specie impudente; abbiamo costruito rifugi per i randagi e trappole per gli uomini, contribuendo ad alimentare la confusione su argomenti come etica, morale, diritti e doveri.
Abbiamo... hanno! Molto umilmente posso accusarmi di essere ancora l'inutile individuo che sogna un mondo diverso, e cerco di convincermene con scarsi risultati.
Sono la voce che fa perdere il senso della vita; sono il sussurro che ti suggerisce di imbracciare un arma e di aiutare qualche povero malcapitato a concludere la sua tristezza. Sono la lucidità dopo l'orgasmo.

Vivere in questo modo è una sciocca via di mezzo tra libertà e prigionia: quale modo poi? Non saprei nemmeno descriverlo; vivere con l'illusione di potere tutto, quando tutti ti instillano ciò che devi ottenere.
Allungare la vita per aver più tempo da perdere, e guadagnare di più, per spendere di più, per arricchire di più, in modo che qualcuno, te compreso, possa scordarsi più a lungo della propria inutilità.

Illudiamoci, dunque, perché davvero non c'è altro modo per trascinarci sino a domani.
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Del quid

C'è qualcosa che non va; un ingranaggio che non funziona a dovere in quell'antichissimo ordigno che chiamano "cervello". Un errore di programmazione, qualche collegamento sballato che si rifiuta di trasmettere le informazioni in maniera corretta.

Non posso credere di aver paura di allontanarmi da una persona perché associo la situazione alla morte; eppure al solo parlarne sento un inquietante senso di vuoto nel torace e sotto i piedi. 
Le vertigini sono il modo che il mio corpo sceglie per comunicarmi che è d'accordo con me, un modo che spesso detesto quasi quanto il messaggio stesso.
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Della svolta in vista

Esame preso; mezzo per la precisione, ma è un inizio.
E poi giù, ad affogare; per fortuna domani sarà una giornata sensata, finalmente. Gli impegni sono una fragile liana che mi trattiene dallo sprofondare nel pantano di me stesso.
Gli amici ci provano, costruiscono catene umane, e per un po' riescono nella loro impresa, ma poi lascio la presa, e affondo un po' di più: attualmente mi sento il fango alla gola.

Se tu (perdonami, torno a parlarti come se fossi in grado di sentirmi) fossi qui, avremmo passato una serata stupenda insieme.
Se tu non fossi mai stata, almeno per me, avrei passato una serata stupenda con i miei amici.
Ma tu eri, e poi hai smesso di essere, e nonostante non sia colpa tua non riesco a smettere di incolparti di aver fatto smettere con te anche una parte di me stesso; la parte che in date specifiche sa che il sonno è l'unica alternativa al pensiero, perché dormendo, almeno, le palpebre possono arginare le lacrime.

Insomma, buon compleanno; spero mi scuserai se anche quest'anno non ho avuto il coraggio di portarti un pensierino.
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Unknown
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Premettendo

Mi scuso per eventuali errori di battitura, distrazione, ignoranza.
Sono abbastanza puntiglioso, ma scrivendo di getto, capita che mi sfuggano diversi strafalcioni.
Quando (se) rileggo inorridisco per tutti quelli che incontrano il mio occhio; mi sembrano sassi spigolosi su quello che mi piacerebbe che fosse un sentiero erboso da percorrere a piedi nudi.

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